

La famosa fashion blogger Chiara Ferragni torna a far parlare di sé. Questa volta non sui social network o sulle riviste di moda, bensì davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Il 9 luglio 2015 Serendipity, la compagnia di cui fa parte Chiara Ferragni, ha presentato una domanda di registrazione di marchio dell’Unione Europea all’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO). I prodotti per i quali è stata chiesta la registrazione del famoso marchio con l’occhio, rientrano nella classe 18 (borse, sacche, valigie ecc..) e 25 (abbigliamento, calzature ecc..).
Non molto tempo dopo la compagnia olandese CLK Holdings NV, proprietaria del marchio “CHIARA”, decide di iniziare la procedura di opposizione sulla base dell’articolo 8 (1) (b) del regolamento 2017/1001 (motivi di rifiuto relativi). Infatti, secondo la compagnia il marchio di cui la Ferragni chiedeva la registrazione poteva portare il pubblico di riferimento ad un rischio di confusione con il preesistente segno “CHIARA”, registrato nel Benelux per alcuni prodotti della classe 25.
La divisione di opposizione si schiera in favore di quest’ultima, accogliendo parzialmente l’opposizione per quanto riguarda “borse, sacche, astucci, portamonete” della classe 18 e tutti i prodotti della classe 25. Secondo gli esaminatori, infatti, il marchio CHIARA FERRAGNI è facilmente confondibile con il segno CHIARA.
Il tentativo di appello si risolve in un clamoroso insuccesso per l’influencer. Il Fourth Board of Appeal considera, prima di tutto, che il pubblico di riferimento per entrambi i marchi è costituito dal pubblico dei tre paesi del Benelux. Inoltre, i prodotti per cui la Ferragni chiedeva la registrazione nella classe 25 erano identici ai prodotti designati dal marchio anteriore e quelli appartenenti alla classe 18 presentavano una “somiglianza di grado medio”. In particolare, la commissione sosteneva che a livello visivo la somiglianza tra i due segni era di un “grado medio”, a livello fonetico “al di sopra della media” e a livello concettuale era “neutrale”.
Al fine di valutare il rischio di confusione fra marchi, il giudice deve procedere alla valutazione di una serie di elementi, quali quelli distintivi e dominanti del marchio, la somiglianza visiva, quella fonetica e quella concettuale.
Confronto visivo: consiste nell’analizzare la sequenza di lettere e di sillabe se trattasi di due marchi denominativi, o nel confrontare le due immagini se trattasi di marchi figurativi;
Confronto fonetico: concerne il suono delle parole e, dunque, può essere effettuato solo per i marchi denominativi;
Confronto concettuale: riguarda il significato dei marchi se trattasi di marchi denominativi. Secondo le direttive dell’EUIPO “il contenuto semantico di un marchio è ciò che esso significa, ciò che evoca o, qualora si tratti di un’immagine o di una forma, ciò che rappresenta”. Ad esempio, se il marchio è verbale, occorre considerare il significato della parola che lo compone nei dizionari del territorio di riferimento. Ciò significa che, se si tratta di un marchio italiano, occorre vedere se le parole di cui è composto il marchio hanno un significato nella lingua italiana.
L’EUIPO dopo due anni, nel 2017, rifiutò dunque la registrazione del marchio “Chiara Ferragni” in quanto sostenne che effettivamente esistesse “un rischio di confusione tra i segni in questione”.
Tale comparazione non può tuttavia sostituire una verifica eseguita da un giurista esperto del settore.
La questione sollevata dalla Ferragni è andata avanti, sino al Tribunale dell’Unione, che oggi ha annullato la decisione dell’EUIPO, concedendo a Ferragni di usare il suo nome sui suoi prodotti.
Il Tribunale ha riconosciuto che il rischio di confusione tra i due marchi non esiste, perché quello italiano è composto da un nome ed un cognome di una persona ben identificata, ed ha anche un elemento figurativo rappresentato dall’occhio dalle lunghe ciglia,
elementi che lo distinguono chiaramente da un semplice “Chiara” (che, chiaramente, nella sua genericità, puntava invece alla confusione nel cliente evocando il nome della nota imprenditrice italiana).
Secondo il Tribunale, l’EUIPO, inoltre, “ha commesso un errore attribuendo maggior importanza all’elemento denominativo ‘chiara’ rispetto all’elemento figurativo”, l’occhio.
Non solo, nel marchio oggetto di analisi, l’elemento figurativo è posto al di sopra dell’elemento denominativo, ma le sue dimensioni superano di gran lunga quelle di quest’ultimo. Pertanto, non deve essere applicato nessun automatismo che porti a dire che l’elemento nominativo del marchio costituisca in ogni caso la parte dominante e distintiva di questo (come invece rilevato dal Fourth Board of Appeal).
I giudici europei hanno stabilito che “le differenze tra i segni esaminati, in particolare sotto il profilo visivo, costituiscono motivi sufficienti per escludere la sussistenza di un rischio di confusione nella percezione del pubblico”.
La Corte del Lussemburgo inizia la sua analisi rilevando come l’importanza dell’elemento figurativo nel segno “CHIARA FERRAGNI” sia importante quanto l’elemento verbale e contribuisca in modo importante all’impressione visiva complessiva di questo. Inoltre, rileva che l’elemento “FERRAGNI”, essendo più lungo, sia visivamente più importante di “CHIARA”.
Ne consegue che tra il marchio anteriore «CHIARA» e il segno «CHIARA FERRAGNI» vi sia un debole livello di somiglianza visiva, a differenza da quanto rilevato dal Fourth Board of Appeal.
A questo punto la Corte di Giustizia ha messo in guardia contro un’applicazione “automatica” di determinati criteri stabiliti dalla giurisprudenza precedente. Così, ad esempio, mentre è vero che in linea di principio la parte iniziale di un segno è più rilevante della parte finale, non sempre è così.
Si dovrebbe evitare qualsiasi automatismo e pensare che solo perché “CHIARA” viene prima di “FERRAGNI”, il primo sia più importante di quest’ultimo.
In quanto tale, la somiglianza fonetica tra i segni “CHIARA” e “CHIARA FERRAGNI”, sebbene esistente, dovrebbe essere considerata media se non addirittura tenue.
Ciò che importa è l’impressione generale e complessiva trasmessa dai segni in questione, poiché il consumatore medio normalmente percepisce un segno nel suo insieme e non ne esamina i singoli elementi. Anche l’idea che il nome “Chiara” possa sembrare un po’ “esotico” per il pubblico di riferimento (Benelux), non compensa il fatto che la somiglianza visiva tra i segni in questione sia debole.
La decisione della Corte ha constatato l’inesistenza di errori da parte del Board of Appeal relativi all’individuazione del pubblico di riferimento e al fatto che i prodotti contrassegnati dai marchi fossero identici ed ha ricordato il metodo generale che deve essere adottato per valutare le somiglianze tra due segni.
Due marchi sono simili quando “dal punto di vista del pubblico di riferimento, esiste tra loro un’uguaglianza almeno parziale per quanto riguarda uno o più aspetti pertinenti. La Corte ricorda come l’analisi della somiglianza debba fondarsi cumulativamente sia su un livello visivo, fonetico e concettuale, sia tenendo in considerazione in particolare gli elementi distintivi di ciascun segno.
Per cui, prima di tutto ha analizzato se il marchio Chiara Ferragni sia caratterizzato da elementi distintivi.
Questo marchio complesso consiste in un occhio azzurro stilizzato con delle lunghe ciglia nere realizzato in un modo particolare, facilmente identificabile dal consumatore. Secondo i giudici dunque, tale marchio non può essere considerato meramente ornamentale.
L’8 febbraio 2019 la Corte ha affermato che il marchio figurativo “CHIARA FERRAGNI” costituisce un marchio dell’Unione Europea. La fashion blogger potrà dunque proseguire il suo progetto di internazionalizzazione dei suoi prodotti senza incorrere in ostacoli giuridici.
Questa decisione è di particolare importanza perché, come rilevato precedentemente, la Corte offre una chiara spiegazione di come debba essere effettuata l’analisi della similarità tra due segni. È evidente che ogni tipo di automatismo decisionale dipendente da una precedente giurisprudenza non debba essere vincolante e sostitutivo del ragionamento di merito dei giudici. Secondo la Corte i criteri esistenti per verificare la somiglianza tra due marchi non devono essere applicati rigidamente ad ogni situazione, ma devono piuttosto essere considerati come una sorta di linee guida.
La sentenza rappresenta dunque un invito all’EUIPO di dar prova di una certa flessibilità ed adattabilità dei principi consolidati dalla giurisprudenza nella valutazione di ogni caso di specie, quando ricorrono esigenze di comparazione della similarità tra due segni.